Regia e adattamento Federica Restani Con Vanessa Gravina, Adriano Evangelisti, Raffaele Latagliata, Roberta Formilli, Francesco Antimiani, Stefano Mangoni, Massimo del Rio, Gianluca Martorella
Musiche Federico Mantovani
Costumi Roberta Vacchetta
Assitente alla regia Luciana Visci
Produzione Ars. Creazione e Spettacolo / Fondazione Bam / Centro Internazionale d’Arte di Palazzo Te
NOTE DI REGIA Lontana da ogni traduzione di titolo e di testo che assegna ad Annabella, la “Sgualdrina” di John Ford, un destino infausto, IL PECCATO DI ESSERE PUTTANA desidera fare luce sulla condizione identitaria dell’uomo nella suo affacciarsi doppio su storia e universalità. Il termine “puttana” cessa di far riferimento ad una assunzione comportamentale, rimanda piuttosto ad una condizione dell’essere, quella molteplice, obliqua, indescrivibile, piena e vuota, in definitiva compiuta e completa dell’androgino, dell’uomo-donna. Il titolo diviene quindi la sintesi di una vicenda che agisce mediante la potente figura dell’incesto, inteso come unione. L’incesto occultato nel profondo del cuore di chi l’ha compiuto innesca puntuale la tragedia nel momento stesso in cui viene portato alla luce, questo è il meccanismo dell’azione blasfema nel teatro classico. Il dramma dalle forti nuances elisabettiane di John Ford (1633) sovverte gli schemi del tragico, dichiara il crimine impellente e debutta con una vigorosa affermazione della volontà di perpetrare l’incesto. Giovanni ama Annabella, la desidera e vuole congiungersi con lei in un luogo fisico e morale che trascende le norme del mondo e della religione. La medesima urgenza, seppure in una maniera più morbidamente femminea, muove Annabella, travolta da una tensione inarginabile per Giovanni. Gli amanti sono predestinati l’uno all’altro. A legarli oltre l’amore è il vincolo di sangue. Nati da una stessa madre e da uno stesso padre, si nutrono di una passione che sembra sgorgare da un unico cuore. In una mistica unione del maschile e del femminile i due fratelli trovano una completezza ideale altamente realizzativa e prolifica, garantita dalla ingenuità dello spirito. Ma la Storia agisce per dividerli: il passaggio all’età adulta nella sua dimensione frammentata e dicotomica incombe. Un padre, detentore della legge degli uomini impone la decisione di un matrimonio, Soranzo un amante arrogante e prepotente assume le sembianze di marito padrone, un frate, unico legame con una fede salvifica si rende ottusamente incapace di offrire conforto e sostegno. Così l’edenico equilibrio stabilitosi tra gli amanti si incrina in favore di una norma sociale. Ma l’amore, evidente nella sua dimensione metafisica nella chiara indicazione testuale di Ford, che per tutto il testo enuncia triadi divine ed infere operanti nella vicenda, agisce per il ritorno ad un equilibrio superiore che riunisce ciò che è diviso. E laddove questo non è possibile attraverso la vita pone la morte come luogo di esistenza congiunta e di conciliazione. Si compie così l’atto finale della tragedia con un appello inequivocabile al simbolismo del cuore, che strappato dal petto e dalla carne rientra nella propria essenza semantica unicamente spirituale, dove può esistere in eterno nutrito dall’amore. La storia di Ford, intesa come trama è interpretata dunque come una parabola vitalistica che, mentre attinge dal libro della Genesi come struttura allegorica portante, non cerca risvolti psicologici e naturalismi di sorta, ma riflette sulla condizione “essenziale” del soggetto e sull’amore.
Questo allestimento, attento alle suggestioni visive che traslitterano i significati più reconditi della vicenda, sfrutta la struttura architettonica del cortile dell’esedra di Palazzo Te, che espone le proprie simmetrie, chiare e rassicuranti, ad una demolizione organica affinché venga rievocato all’esterno quello spazio emotivo e frastornante delle stanze interne. Le acque delle peschiere, la loggia di Davide, insieme alle stanze di Amore e Psiche, dei Giganti e adiacenti ospiteranno i novelli Romeo e Giulietta fordiani, pagando un forte tributo all’opera cinematografica di Peppino Patroni Griffi, che nel ’71 a Palazzo Te aveva ambientato la vicenda del suo “Addio fratello Crudele” ispirato al testo di Ford. Cento metri di architettura formata da logge, finestre e balconi, affacciati sulle due grandi peschiere si proiettano dinamiche verso il pubblico mediante il lungo pontile, a simulare quella struttura tipica del teatro elisabettiano dell’apron stage. Ed è proprio la dinamica a croce delle azioni sceniche e narrative che supporta e sottolinea la frammentazione dalla cronologia rimandando a un linguaggio cinematografico, dove i flashback si alternano a intensi a parte e a momenti onirici di proiezione fantastica delle coscienze.