A ZVORNIK HO LASCIATO IL MIO CUORE

A Zvornik ho lasciato il mio cuore A Zvornik ho lasciato il mio cuore
A Zvornik ho lasciato il mio cuore

di Abdulah Sidran


Regia di
Federica Restani.

Con
Adriano Evangelisti, Ema Andrea, Alert Celoaliaj, Marco Casazza, Helidon Fino, Gentian Hazizi, Devis Muka, Lulzim Zeqja, Loredana Gjeci, Elena Sbardella, Erica Puddu.

Produzione
Ars Creazione e Spettacolo

 


Il progetto, con la regia di Federica Restani, è stato presentato nel settembre del nel 2008 al Teatro dell’Accademia di Tirana, Albania, con un cast che univa attori del Teatro nazionale di Tirana e attori italiani e nel giugno del 2009 al Festival del Teatro di Scena e Urbano di Mantova con il medesimo cast.


NOTE DI REGIA
Quando orrori e distruzioni vengono filtrati dai media, specie televisivi, che a volte paiono codificarli in una sorta di format alla stregua di un irreale reality, perdono la loro essenza di assurdità, quella che ha creato imbarazzo per i moventi che animavano le parti in lotta, per la maldestra presa di posizione della comunità internazionale.

Imbarazzi e sensi di colpa che al contatto con il testo di Sidran diventano impellenti ragioni di raccontare la guerra, una guerra giocata sulla pelle di gente a noi vicinissima, apologo di un’insensatezza che sfocia nella barbarie più primordiale.

Mettere in scena questo testo significa riconoscere il valore universale di una voce che non si schiera in favore di una parte o di un’altra, ma che denuncia la guerra, questa ma anche qualsiasi altra, soprattutto se civile, per quello che è: un’assurda asserzione di diversità inconciliabili. Il grottesco incedere del nonsenso nella realtà non è che la manifestazione della non volontà ad istaurare dialoghi, a riconoscere l’uomo che ci sta davanti, sia che appartenga ad un altra nazione sia che parli la nostra stessa lingua.

L’ambiente suggerito dall’autore è estremamente realistico. Gli interni sono quelli di un albergo: una camera, la reception, la lavanderia, ordinari e anonimi, potrebbero essere situati in qualsiasi paese europeo e  in qualsiasi tempo dall’epoca del telefono in poi. Gli spazi e gli oggetti sono vissuti nella loro dimensione strettamente funzionale, fintanto che la follia della guerra non irrompe nella storia; a quel punto cambiano di funzione e diventano irriconoscibili: la stanza da letto si trasforma in luogo dell’esecuzione insensata della prostituta Vera, e la lavanderia, il posto in cui i panni vengono nettati, liberati dalla loro sozzura quotidiana, riportati alla innocenza originaria, si tramuta nel suo opposto: nel luogo della macchia, in cui viene versato il sangue degli innocenti. Mettere in scena il Male, ma anche la mutazione di persone normali in epifanie del Male, nel breve volgere di pochi giorni, è il grande tema del tempo di questa pièce, che ne rende l’universalità.

La descrizione di Sidran è cinematografica, nelle didascalie appaiono indicazioni di inquadratura piuttosto che di ambiente, i dettagli dell’arredamento diventano di volta in volta protagonisti, come presi in un campo stretto da una macchina da presa a definirne l’importanza. La compressione e la dilatazione dello spazio scenico, passando da campi stretti a campi lunghi, attraverso una serie di pareti mobili, che chiudono i diversi ambienti, recupera i suggerimenti dell’autore, e vi aggiunge l’occhio di quegli spettatori che siamo stati a nostra volta quando la guerra stava avendo luogo. 

 

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